L’alleanza tra Cei e Ancona finisce in tribunale. Era nata per “purificare lo sport dal business”

Doveva «pacificare il calcio professionistico e purificarlo dal
business», ma ora è guerra di denari sul «progetto soccer» benedetto
dal Pontefice. In ottobre la firma al Pontificio oratorio San Pietro
dell’accordo tra l’Ancona (in lotta per la promozione in serie B) e il
Csi (Centro sportivo italiano) collegato alla Cei, la Conferenza
episcopale italiana (i vescovi). Poi l’udienza in Vaticano e la
consegna a Ratzinger della nuova maglia della società marchigiana,
personalizzata col nome del Papa. Con tanto d’appello del segretario
di Stato, Tarcisio Bertone, «a cogliere la valenza educativa dello
sport, fattore di autentica promozione umana», prima dell’amichevole
tra l’Ancona e le All Star Clericus Cup, selezione dei migliori atleti
del Mondiale pontificio per seminaristi e sacerdoti. Le partite della
«squadra del Papa», col logo Csi sul petto, finirono sulle tv di tutto
il mondo, accompagnate da proclami per lo «sport etico» e dal codice
di comportamento per i giocatori: niente scorrettezze o insulti in
campo, pena prestazioni di volontariato obbligatorie.


Carte bollate

Appena quattro mesi e già si profila il divorzio, con carte bollate,
litigi sui soldi, scambi d’accuse, richieste di risarcimenti. «Siamo
un’associazione seria, senza risorse non possiamo operare, le belle
parole non bastano, servono i fondi», tuona Edio Costantini,
presidente nazionale del Csi che punta l’indice contro l’Ac Ancona
«per non aver supportato economicamente, come avrebbe dovuto fare, le
attività e le iniziative del progetto». E ciò, attacca il Csi, «pur
avendo regolarmente percepito gli introiti pubblicitari, di cui
dispongono, per entità, poche società, non solo di C1 ma anche delle
serie maggiori». Insomma, se la famiglia di Sergio Schiavoni e i soci
milanesi del club biancorosso non metteranno mano al portafoglio, «la
fine del "progetto soccer" sarà purtroppo inevitabile e ognuno si
dovrà assumere le responsabilità e le conseguenze di questo inopinato
insuccesso», annuncia una nota del Csi. E pensare che la discesa in
campo della Chiesa nel rettangolo verde puntava proprio a una svolta
moralizzatrice «come antidoto alle derive più discutibili del fenomeno
calcio: commercializzazione e tecnicismo esasperati, perdita di senso
del limite, diluizione dei valori basilari dello sport». Per la prima
volta nella sua storia, il Csi, fondato dall’Azione Cattolica e i cui
responsabili ecclesiali vengono nominati dalla Conferenza episcopale,
era entrato nello sport professionistico per fare dell’Ancona «il
laboratorio di un nuovo modello di gestione finanziaria, ispirato alla
trasparenza e al concetto di sostenibilità, flessibilità del vincolo
da cartellino, diffusione di un’autentica cultura sportiva, apertura
del club a finalità sociali». In pratica, da piazza delle bufere
giudiziarie dei presidenti Edoardo Longarini ed Ermanno Pieroni a
squadra dei preti, tanto che l’arcivescovo di Ancona, Edoardo
Menichelli esultò «per un modo innovativo di moralizzare il calcio e
per una positiva assunzione di responsabilità mirata a riportare un
po’ di etica in un settore professionistico in grave crisi di valori».
Il Csi voleva fare dell’Ancona lo strumento per rendere il calcio
«educativo, non più ancorato ai valori esclusivamente economici delle
logiche di mercato». Peccato che adesso è proprio sui soldi che si
infrange il «progetto soccer».

Patti infranti

Il Csi imputa al club marchigiano di non aver rispettato i patti,
mentre per la società a essere inadempiente è proprio il Csi che aveva
garantito di portare ad Ancona sponsor per un un milione e 250 mila
euro. «Quest’anno sono arrivati solo 450 mila euro dall’Italiana
Assicurazioni (600 mila il prossimo anno), tanto che ora dovremo
ricapitalizzare la società». I soldi trovati finora dal Csi sono
serviti alla gestione tecnica, al lancio dell’iniziativa e agli
stipendi dei calciatori. Le quote dell’Ancona sono divise in parti
uguali (20%) tra la famiglia Schiavoni (che in ottobre proclamava con
orgoglio: «Siamo stati scelti dal Csi per la nostra pulizia, la
specchiata moralità e la fede religiosa»), l’imprenditore trevigiano
Alessandro Fassina, il finanziere milanese Ugo Colombo, la banca
on-line Twice e una cordata legata al banchiere Enrico Petocchi. «Il
Csi reclama pure la sua quota per la mediazione nelle sponsorizazioni
– spiega Sandro Angeletti, voce del tifo biancorosso – e mentre
litigano sui soldi la squadra è scivolata dal primo al quinto posto,
vincendo due delle ultime 13 partite. Ora la società intende querelare
il Csi per diffamazione». Niente male, come tentativo di eticizzare il
calcio.

La Stampa – Giacomo Galeazzi – 16/2/2008

This entry was posted in Commercio. Bookmark the permalink.