Milano: trasferito il prete che ha difeso i rom

34029. MILANO-ADISTA. Una storia emblematica di questi nostri tempi, in cui ci si accanisce contro lavavetri, prostitute e writer metropolitani e chi difende i poveri e gli immigrati viene lasciato solo, divenendo spesso oggetto di contestazione o emarginazione da parte della sua comunità. Come ad Opera, cittadina di 14mila abitanti a sud di Milano, dove don Renato Rebuzzini, 65 anni, parroco della parrocchia dei Ss. Pietro e Paolo, noto per il suo impegno a fianco dei rom, se ne va dopo quasi 14 anni: dal primo settembre, infatti, a dire messa al suo posto c’è un nuovo parroco, don Olinto Roberto Ballerini. In Curia assicurano che l’avvicendamento è fisiologico. Anche don Renato sostiene che la sua partenza era concordata da diversi mesi. Ma è difficile pensare che alla base del trasferimento di don Roberto non vi sia il clima di tensione causato dal suo forte impegno in difesa dei nomadi del campo di Opera.

Tutto ebbe inizio quando, a metà dicembre 2006, il Comune di Milano (giunta di destra guidata da Letizia Moratti), la Prefettura e la Provincia decisero, in attesa di trovare una soluzione definitiva, di allestire ad Opera un campo nomadi provvisorio (durata prevista: tre mesi) per una settantina di rom rumeni, più della metà donne e bambini (tutti peraltro muniti di regolare permesso di soggiorno), sgomberati il 14 dicembre dal campo di via Ripamonti, a Milano. Il sindaco di Opera, Alessandro Ramazzotti (centrosinistra), diede la disponibilità del Comune a risolvere l’emergenza, trattandosi di decine di famiglie finite in mezzo a una strada in pieno inverno. La Protezione Civile allestì una tendopoli, mentre dell’assistenza dei rom e del rispetto delle regole da parte degli occupanti si fece garante La Casa della Carità di don Virginio Colmegna di Milano. Ma gli abitanti di Opera i nomadi non li volevano. Vuoi per il clima mediatico che dipinge i rom come la causa principale del degrado urbano e dei problemi sociali, vuoi per l’impegno a livello locale di Alleanza Nazionale e soprattutto della Lega Nord nel fomentare la popolazione, nella cittadina sorse subito un comitato di residenti – il cui leader era Enzo Fusco, capogruppo della Lega in Comune – che si batteva contro l’insediamento del campo.

La sera del 21 dicembre 2006, era in programma una seduta del consiglio comunale dedicata alla questione dei rom. Ma la sala venne occupata da centinaia di persone (molte, pare, fatte venire appositamente da fuori). Molti gli improperi all’indirizzo del sindaco e della giunta. Alle 22, un consistente gruppo, incitato da Fusco, abbandonò la sede del Comune: “Andiamo al campo rom”. Nacque un presidio, non autorizzato, durante il quale vennero bruciate sei tende mentre altre sette furono divelte e alcune auto della Protezione Civile danneggiate. Per quei fatti i carabinieri indagarono nove persone, tra cui Fusco; tutte sono ora in attesa della decisione sull’eventuale rinvio a giudizio per danneggiamento, devastazione, occupazione di suolo pubblico, associazione a delinquere, interruzione di pubblico servizio ed altri capi d’imputazione correlati. Il pogrom – denunciò il sindaco – era nell’aria da giorni. Ma le forze dell’ordine arrivarono solo a cose ormai fatte. E da quel giorno il clima ad Opera divenne sempre più incandescente: gruppi di residenti, notte e giorno, presidiavano l’entrata dell’insediamento rom; un contesto che indusse le istituzioni a decidere il trasferimento dei settanta rumeni prima del tempo.

Don Renato era stato da subito favorevole alla proposta di accogliere i nomadi. In un contesto in cui paure irrazionali si mischiavano a violenze collettive, il parroco ebbe il coraggio di reagire duramente contro quella parte di cittadinanza che rifiutava ospitalità temporanea a famiglie in difficoltà. Dopo il rogo del campo, scrisse una lettera aperta in cui faceva appello alla solidarietà e contemporaneamente censurava il comportamento di “donne e uomini, giovani e anziani, anche bambini, tutti assatanati, privi di ogni intelletto e di ogni sentimento vagamente umano”. Poi, la notte di Natale, durante la messa, il parroco pronunciò un’omelia altrettanto dura, affermando che non c’erano le condizioni per scambiarsi il rituale “segno di pace”: un gesto che significa riconciliazione e fratellanza sarebbe suonato ipocrita per una comunità che non aveva saputo accogliere i suoi fratelli più sfortunati.

Ora che don Renato (che nel 1979 ha fondato a Milano – dirigendola fino al ’93 – la Comunità del Giambellino per tossicodipendenti e che nel 1994 divenne cappellano del carcere di Opera) lascia, i suoi nemici esultano. La Lega ha dato l’annuncio della sua partenza con un comunicato (firmato dal solito Fusco) dai toni trionfanti: se ne va don Renato Rebuzzini, il “parroco che leggeva il manifesto”, il prete ha sfidato gli operesi facendo “scappare i fedeli dalla chiesa”, con un comportamento dettato “forse da interessi tutt’altro che legati alla fede ma, piuttosto, alla gestione degli aiuti ai nomadi”.

Parole che hanno provocato una dura reazione del primo cittadino di Opera, Alessandro Ramazzotti: “L’attacco del consigliere Ettore Fusco a don Renato e alla Chiesa milanese è inaccettabile. Mi limito a ricordargli le parole del cardinale Tettamanzi al ritorno, nel marzo scorso, dal Pellegrinaggio in Terrasanta: non è certo alimentando la paura che si può realizzare quel dialogo, quel confronto, quella collaborazione che sono poi l’unica strada possibile per la convivenza”.

(Valerio Gigante) 13 settembre 2007 – via o jak

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