“Che ci sia ciascun lo dice / dove sia nessun lo sa”: il distico di Metastasio cade in taglio per sintetizzare l’impressione di disorientamento che si prova ogni volta che l’Opus Dei viene menzionata nelle cronache. Avvolta in un aura di mistero, la controversa creatura del sacerdote filofranchista Josemaria Escrivá, è spesso citata con un sottinteso di allusioni allarmanti: dalla segretezza dei suoi membri, alle pratiche penitenziali dal vago sapore medioevale, alla sua presenza capillare e strategica negli ambienti della finanza, dell’industria, della ricerca scientifica, delle comunicazioni e della politica.
Ma ancora una volta “dove sia nessun lo sa”. Tutte le allusioni appena citate circolano da anni senza superare di molto il livello di dicerie. Quando l’Opus è chiamata in ballo direttamente (e negli ultimi anni è capitato spesso), a rappresentarla in compiacenti salotti TV arrivano sacerdoti dal sorriso aperto, che la descrivono come una pia confraternita assai dedita allo studio e basata sull’intuizione che Dio si possa glorificare nel lavoro quotidiano altrettanto bene che nella preghiera. Nulla di misterioso dunque. Nulla di settario o pervasivo. Sacerdoti, lavoratori, uomini di grande spiritualità, tutto qui.
O no?
Di recente le allusioni ai maneggi e alla potenza dell’Opus Dei si sono fatte insieme più esplicite e insieme circostanziate. Si parte con Il codice da Vinci, un thrillerino di scarse pretese, con tutti i suoi bravi cliffhanger, i suoi colpi di scena, insomma i dettami canonici delle scuole di sceneggiatura americane. Stavolta però nella parte dei cattivi non c’è l’abusata CIA o i soliti poliziotti venduti, ma un paio di membri dell’Opus.
Apriti cielo. La regoletta da terz’anno di scuola media che distingue la “lettura ingenua” (l’orco mangia davvero i bambinucci) da quella “disponibile” (la CIA non è necessariamente implicata in tutte le malefatte del mondo, ma l’ipotesi mi intrattiene e diverte per le 2 ore che ci vogliono a leggere un thriller), viene improvvisamente a cadere. Quando poi dal libro viene tratto un film – mortalmente noioso, peraltro – esplodono polemiche e boicottaggi. In altre parole, polizia, servizi segreti, persino Presidenti USA: sì. Opus Dei: no.
Fino a qui la letteratura. Un anno fa però scoppia uno scandalo finanziario, la cosiddetta “Bancopoli”. È il peggiore della storia italiana dai tempi di Crispi e della sua Banca Romana e quando si scopre che al centro di tutto, avvinghiato alla poltrona di governatore della Banca d’Italia c’è un signore che non fa mistero della sua vicinanza all’Opus, qualche domanda viene spontanea. Quest’estate infine, qualcuno viene rapito a Milano appena fuori da uno degli eleganti palazzi che, senza targhe o indicazioni sul citofono, ospitano una delle lussuose “Residenze” dell’Opera. Si chiama Gianmario Roveraro, è un banchiere che coerentemente con la sua affiliazione all’Opus, viene descritto come un lavoratore assiduo, dedito al cammino di santificazione nel lavoro quotidiano auspicato da Escrivá. Al ritrovamento del suo cadavere, segato in due da un socio d’affari scontento, viene però da chiedersi con quali compagni di strada il povero banchiere fosse solito glorificare il Signore e, più in generale, in che direzioni si muova l’Opus e con che fini.
In Italia, terzo paese al mondo per numero di membri che ammettono la loro affiliazione e sede centrale della Prelatura, esisteva sinora pochissimo materiale sull’Opera di Escrivá: I segreti dell’Opus Dei, un volume minuzioso ai limiti della leggibilità dello studioso cattolico Peter Hertel e Oltre la soglia, l’autobiografia di Maria del Carmen Tapia, numeraria per 18 anni nel quartier generale dell’Opus. La lacuna è colmata ora da Ferruccio Pinotti, collaboratore di Corriere, Espresso, Sole 24 Ore e International Herald Tribune, che ha speso anni di ricerche e interviste tra Europa, Stati Uniti e America Latina per produrre il saggio Opus Dei segreta (Bur).
Nella tradizione di quel giornalismo investigativo di cui periodicamente si lamenta la scomparsa, facendo grosso torto a coloro che invece lo praticano con serietà – e rischi –, Opus dei segreta accosta ai documenti le dichiarazioni di ex membri d’autorità indiscussa (tra gli altri Alberto Moncada, sociologo spagnolo pro-rettore della prima Università Opus in America Latina; padre Vladimir Feltzmann, teologo ceco collaboratore personale di Escrivá dal 1965, Sturmius Wittschier, psicanalista e docente di teologia a Zurigo). Il quadro che ne risulta risponde a molte delle domande poste sopra e ad altre, se possibile ancora più inquietanti.
Ad esempio il ricorso alle mortificazioni corporali. Nulla di male in sé: c’è chi punta la sveglia in piena notte per andare a pescare, chi dilapida patrimoni per una bottiglia pregiata e chi apprezza la mistica di flagello & cilicio: ciascuno è libero di passare il tempo come preferisce. Il problema è per l’appunto la libertà. Per i membri dell’Opus infatti cilicio e affini vengono raccomandati con un rigore che sconfina nel precetto. Ma se questa pur discutibile usanza appare alla fin fine eclatante solo in termini di curiosità morbosa (non a caso vi si sofferma ampiamente Dan Brown), è più arduo sorvolare sulla pratica sistematica di catalizzare “vocazioni” che per la loro precocità (si comincia attorno ai 14 anni) si fatica a non considerare frutto di plagio.
Ancor più problematica, specie rispetto alle ampie professioni di apertura, la sistematica ostinazione al segreto: dalle Residenze sempre rigorosamente anonime, alla divisione meticolosa tra documenti pubblici e materiale “per uso interno”, fino all’allarmante assenza di liste degli aderenti. Mentre persino la massoneria è tenuta a depositare gli elenchi degli affiliati alle prefetture, nemmeno il ministero dell’Interno conosce i nomi di chi fa parte dell’Opus. L’inammissibilità di tale omissione, già evidente in sé, ha trovato riprova nel 2004 quando la stampa britannica ha rivelato che Ruth Kelly, ministra del gabinetto Blair prima alla Pubblica istruzione, poi al dicastero dell’Uguaglianza sociale, nota per le conservatrici prese di posizione su PACS e diritti degli omosessuali, era “vicina” all’Opus. In democrazia l’adesione a ideologie progressiste non vale meno del sostegno a quelle reazionarie, il problema, evidentemente, è la trasparenza con cui tale posizione si manifesta. L’obbligo di segretezza (tanto Kelly quanto l’Opus Dei inglese elusero a lungo la questione dell’affiliazione della ministra) e il sistematico rapporto sulla propria attività a un consigliere spirituale dell’Opera configurano un atteggiamento di doppia loyalty: agli elettori per quanto concerne la raccolta dei voti, a un gruppo di potere occulto in merito al concreto operare politico. Sino a qualche tempo fa, nota Pinotti, nel Parlamento italiano venivano presentate interrogazioni su questo tema mentre oggi regna un silenzio cui fa poco allegro contraltare la presenza inspiegabile (e mai spiegata) del presidente DS Massimo D’Alema alla messa per la santificazione di Escrivá nell’ottobre 2002.
L’ossessione per la riservatezza si fa parossistica in merito all’ultima e più delicata questione, sollevata da Alberto Moncada. Negli ultimi anni il sociologo madrileno ha raccolto documentazione e testimonianze che concordano nel raccontare come frustrazioni, stati depressivi, psicosi e tentativi di suicidi sarebbero non solo frequenti ma, in certa misura, connaturati al culto della disciplina e al processo di destrutturazione della personalità che regna nei centri dell’Opus. Il conflitto più straziante è proprio il contrasto “tra ciò che viene promesso e incoraggiato come vocazione, un cammino di ascesi che si attua senza rinunciare all’inserimento nel mondo del lavoro, e la realtà di uno status molto simile a quello di chi vive in un’enclave conventuale secondo ritmi e doveri minuziosamente regolamentati e non discutibili”. In La cuarta planta (“Il quarto piano”), un saggio non ancora tradotto in Italia, Moncada ha rivelato l’esistenza di una clinica di Pamplona, interamente gestita da personale affiliato all’Opera e specializzata nel trattamento – ça va sans dire occulto – di membri affetti da patologie psichiche, di sempre maggiore gravità con l’approssimarsi del quarto piano, dove sono trattenuti, spesso all’insaputa dei familiari, i pazienti con le problematiche più gravi.
Questa immagine buzzatiana e sottilmente angosciosa appare allora la più adatta per racchiudere le contraddizioni di una realtà tanto influente e pervasiva quanto refrattaria alla messa in discussione. Pinotti conclude il suo saggio con l’auspicio – condivisibilissimo – che la trasformazione in senso globale dei media e l’impossibilità di arrestare un dibattito in costante crescita portino l’Opus a invertire la rotta in direzione di una maggiore trasparenza. Utopia?
Nell’attesa di scoprirlo, la lettura di Opus Dei segreta è forse la soluzione migliore per diradare parte della caligine e rinfocolare la discussione su questioni sempre meno eludibili.
Teo Lorini
Pubblicato da t.scarpa il 29-01-07
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