L’esame di quanto accade e si muove nella comunità cattolica degli Stati Uniti, nella sua chiesa, nelle relazioni con il centro romano, nei rapporti tra Washington e Vaticano costituisce da sempre un buon punto di partenza per alcune riflessioni su un Paese così complesso e multiforme come gli Usa, nel quale, inoltre, i comportamenti pubblici sono oramai già ampiamente condizionati dall’appuntamento delle elezioni presidenziali del novembre 2008. In un lasso di tempo relativamente breve si è, infatti, susseguita una serie di avvenimenti relativi alla chiesa universale e alla chiesa locale americana, tra loro significativamente correlati, che ha introdotto importanti elementi degni d’attenzione.
In particolare vanno richiamati: la visita del presidente George W. Bush in Vaticano il 9 giugno 2007 dopo la conclusione del summit del G8 in Germania; lo svolgersi dal 12 al 15 novembre 2007 dell’Assemblea generale d’autunno della Conferenza episcopale americana che ha visto l’elezione del suo nuovo presidente per il prossimo triennio; la nomina di due nuovi cardinali statunitensi nel concistoro del 24 novembre; l’annuncio, da parte di Bush, della designazione della nuova ambasciatrice in Vaticano; ultima ma certamente non ultima, la conferma definitiva della visita negli Stati Uniti di papa Benedetto XVI dal 15 al 20 aprile 2008. E’ la quarta visita di un pontefice negli Stati Uniti dopo quelle di Paolo VI nel 1965 e di Giovanni Paolo II nel 1979 e nel 1995.
Quando atterrerà all’aeroporto di Washington la sera di martedì 15 aprile, il pontefice si avvierà ad incontrare una comunità cattolica numericamente forte, che sta attraversando una fase di crescita grazie soprattutto all’immigrazione ispanica, ma che non si è ancora completamente ripresa dallo shock dello scandalo degli abusi sessuali commessi da religiosi. La chiesa cattolica negli Stati Uniti accoglie quasi 70 milioni di fedeli, che rappresentano il 23% della popolazione totale del paese. I protestanti raccolgono oltre il 50% della popolazione e nel loro insieme sono quindi numericamente superiori, ma la loro divisione in numerosissime famiglie, la più importante delle quali è quella dei battisti (che però rappresentano solo il 16% della popolazione), fa sì che la confessione cattolica sia la più diffusa nell’Unione. La chiesa cattolica americana è strutturata su 195 arcidiocesi e diocesi e quasi 19mila parrocchie, con circa 42mila preti, cinquemila religiosi e 65mila religiose. La novità degli ultimi anni è la grande crescita del gruppo ispanico, ora il 39% dei cattolici nordamericani, caratterizzato da un’età media assai bassa. Ad esso appartiene, infatti, il 44% dei bambini cattolici sotto i dieci anni.
La presenza dei cattolici nella vita sociale si manifesta soprattutto nell’istruzione e nella cura e nel sostegno di ammalati e gruppi deboli. Dirigono seimila scuole elementari con un milione e 600mila studenti e 1.300 scuole medie con 670mila studenti. Oltre 780mila studenti frequentano le 236 università e istituzioni di formazione superiore cattoliche, la più importante delle quali è la Catholic University of America di Washington, Gli ospedali cattolici sono almeno 556, mentre i servizi sociali vicini alla chiesa hanno fornito assistenza a quasi sette milioni e 500mila singoli individui e a oltre sei milioni e 300mila persone sono stati distribuiti aiuti alimentari.
Di fronte a quest’impegno, così rilevante sia in termini di quantità come di qualità, rimane ancora aperta la bruttissima pagina dei coinvolgimenti di sacerdoti e religiosi in abusi sessuali. Le diocesi hanno compiuto, in questi anni, un intenso lavoro sociale nei confronti delle vittime di violenze, modificando le procedure di denuncia, favorendo gli offesi, fornendo l’assistenza di gruppi appositamente preparati, alleviando le difficoltà psicologiche delle vittime, che inizialmente dovevano aprire il caso di fronte a ecclesiastici, con la costituzione di appositi staff laici. E’ stata inoltre semplificata la procedura per il riconoscimento di responsabilità e per la concessione di supporti economici, secondo quanto attuato, ad esempio, dall’arcivescovo di Filadelfia, cardinale Justin Rigali. Una posizione altrettanto decisa è stata quella assunta dal cardinale Roger Mahony, arcivescovo di Los Angeles, un’altra diocesi pesantemente coinvolta negli abusi ai minori, con l’accordo per una transazione economica con rimborsi alle vittime per 660 milioni di dollari. Si sta facendo ogni sforzo per allontanare dalla chiesa ogni pur minimo sospetto di tolleranza o di voler ritardare le inchieste.
Nel momento in cui il papa giungerà negli Stati Uniti la campagna elettorale per le presidenziali sarà già entrata nella sua fase più calda e, pur se la stagione delle primarie sarà ancora in corso, alcune grandi linee si saranno già definite, soprattutto dopo il ‘super martedì’ 5 febbraio, quando si svolgeranno le primarie in 21 stati. Dovrebbe quindi già essere possibile conoscere, con una relativa approssimazione, il nome degli sfidanti di novembre.
In questa fase di preparazione della corsa elettorale si cerca anche di interpretare gli orientamenti che stanno maturando nell’elettorato cattolico, nella previsione che il suo voto potrebbe risultare decisivo. Nel 2000 l’allora vice presidente democratico Al Gore, sconfitto nel famoso conteggio finale al cardiopalma, superò Bush nelle preferenze dei cattolici, mentre nel 2004 John Kerry fu battuto da Bush nel voto cattolico. Nelle elezioni di medio termine del 2006 i cattolici hanno invece votato democratico al 55%. Si tratta quindi di espressioni di voto che hanno dimostrato dei margini di mobilità e che, se sapientemente intercettate, possono fare la differenza.
Per gran parte del XX secolo i cattolici sono stati leali democratici, ma negli ultimi anni il loro voto si è alquanto avvicinato alla media delle scelte nazionali. Si è avuto un allontanarsi dai democratici, anche in conseguenza del divenire sempre più intenso del dibattito su temi etici. E’ anche importante ricordare come nel corso dei suoi mandati il presidente Bush abbia ripreso molti temi che stanno a cuore ai cattolici, come la lotta contro l’aborto, gli interventi sulla genetica, i matrimoni tra omosessuali. I giudizi della gerarchia cattolica verso l’amministrazione Bush, sotto questo versante, sono quindi complessivamente positivi, mentre gli otto anni del governo liberal di Clinton sono ricordati come particolarmente sgradevoli. Anche le nomine alla Corte Suprema effettuate da Bush sono state ben giudicate.
Nel corso di questi ultimi quattro anni di amministrazione repubblicana le posizioni dei cattolici si sono tuttavia focalizzate su scelte che al momento del voto potrebbero risultare fortemente divaricate. Da un lato, infatti, l’attenzione dei cattolici si è concentrata sui temi etici, come la tutela della vita sotto ogni forma e in qualsiasi momento, cogliendo quindi elementi forti del conservatorismo repubblicano; valga per tutte la presa di distanza dei vescovi americani da Amnesty International per il sostegno alle politiche abortive. Dall’altro lato, però, sono oggi tornati a contare nella vita quotidiana i tradizionali temi economici e quelli legati alle garanzie sociali, all’assistenza pensionistica e sanitaria, assai cari ai democratici. Poiché molti cattolici risiedono negli stati di lunga tradizione industriale, come la Pennsylvania, il Michigan e il Wisconsin, il messaggio democratico potrebbe fare ampia breccia. E’ quindi possibile che una parte dei cattolici ritorni verso i democratici sulla base di motivazioni economiche e solidaristiche.
Anche verso gli ispanici l’amministrazione Bush ha inviato messaggi che possono essere avvertiti come fortemente contraddittori. Se infatti la comunità ispanica è certamente tradizionalista sulla morale, non può però condividere le scelte repubblicane in tema di immigrazione e i suoi voti potrebbero risultare molto pesanti nel 2008. L’impopolarità della guerra in Iraq, una guerra alla quale il nome di George W. Bush appare indissolubilmente legato, potrebbe fare il resto, soprattutto se Hillary Clinton, scarsamente gradita ai cattolici, non risultasse la candidata vincente le primarie. In parte il voto cattolico potrebbe però essere intercettato da un’eventuale scelta repubblicana di candidare l’ex sindaco Rudy Giuliani, che gode di un forte sostegno tra gli italo-americani.
In sostanza la chiesa cattolica ha maturato una serie di posizioni e interventi che la vedono prossima ai repubblicani sui temi dell’etica, della vita matrimoniale, dell’aborto e – di contro – vicina ai democratici sulle questioni dell’economia, dell’assistenza sanitaria, della guerra, delle relazioni internazionali. Una posizione complessa, difficile da garantire nella sua interezza, e che rende ancora non del tutto chiara quale sarà la scelta che alla fine si rivelerà prevalente.
Sul versante dei problemi internazionali il pontefice troverà dunque una chiesa che è al momento alquanto cauta sulla questione dell’Iran, come dimostra una lettera ufficiale inviata il 1° novembre 2007 a Condoleezza Rice dal vescovo di Orlando (Florida) Thomas G. Wenski a nome della Conferenza episcopale. Secondo il presule un attacco all’Iran, in questo momento e in assenza di una minaccia incombente, sarebbe una vera e propria guerra preventiva che solleverebbe seri problemi morali e giuridici. Se da un lato non appare accettabile consentire all’Iran di sviluppare un arsenale nucleare, dall’altro lato – conclude la lettera – prima di pensare a una opzione militare debbono essere sviluppate tutte le alternative diplomatiche.
Il 13 novembre scorso il presidente uscente dell’episcopato americano (William S. Skylstad, vescovo di Spokane) ha rilasciato una dichiarazione secondo la quale, di fronte alla insostenibile situazione in Iraq, la Conferenza episcopale pone alla nazione l’obiettivo di una “transizione responsabile”. Si tratta di una mossa diplomaticamente assai abile in quanto la dichiarazione del vescovo Skylstad, fatta poche ore prima del termine del suo incarico, lancia un messaggio forte della Conferenza episcopale al presidente Bush, ma lascia nel contempo libertà di manovra al suo successore cardinale George, in quanto difficilmente gli potrebbero essere imputate le scelte del suo predecessore.
Secondo il vescovo Skylstad, alcune parti del mondo politico americano paiono non voler avvertire la realtà e i fallimenti in Iraq e la necessità di imboccare nuove strade, mentre altri non sembrano saper valutare i costi e le conseguenze umane di un ritiro troppo rapido. Si è così di fronte a una situazione di paralisi. Si tratta oggi, secondo il vescovo di Spokane, di concentrarsi più sull’etica della ‘uscita’ che sull’etica dell’intervento, cercando contemporaneamente di minimizzare le ulteriori perdite di vite umane. Per giungere a una pace in Iraq si richiede molto più di un’azione militare, ovvero è necessario uno sforzo comprensivo politico, diplomatico, economico nel quale non vanno dimenticate possibili forme di collaborazione con altre nazioni, senza escludere la Siria e l’Iran.
In primo luogo, secondo i vescovi, si deve prendere coscienza che il conflitto ha causato sino ad oggi, oltre alle migliaia di caduti e feriti, almeno quattro milioni di profughi e che gli Stati Uniti hanno delle responsabilità nei loro riguardi. Si giudica poi il conseguimento della stabilità dell’Iraq come direttamente legato a un rinnovato equilibrio della regione, che parta da un accordo tra palestinesi e Israele, ma che non può non coinvolgere, per cerchi concentrici, anche Pakistan, Iran e Afganistan. Per un consolidamento della convivenza pacifica nella regione è infine basilare raggiungere la garanzia della libertà religiosa. Viene avanzato anche un appello affinché in ogni azione militare siano assicurati la protezione dei civili, l’uso proporzionale della forza, il rifiuto della tortura, mentre prima di intraprendere una qualunque iniziativa si dovrebbe seguire il principio della “probabilità di successo”.
L’ episcopato chiede ai leader della nazione di essere più realistici circa la difficile situazione in Iraq e più concentrati sulle conseguenze di un ritiro che può correre il rischio di essere o troppo rapido oppure non sufficientemente rapido e di cominciare a lavorare assieme, senza distinzioni di schieramenti, per portare a conclusione la guerra, con l’obiettivo minimo di una transizione responsabile e della protezione delle vite umane, irachene e americane. I vescovi americani, riunitisi a Baltimora nel Maryland dal 12 al 15 novembre per la loro assemblea generale d’autunno, hanno scelto il nuovo presidente della Conferenza per il prossimo triennio. E’ stato eletto l’arcivescovo di Chicago, cardinale Francis George, con l’85% dei voti.
Il segnale di novità va colto nel fatto che a un vescovo, tra l’altro preposto a una diocesi abbastanza periferica come quella di Spokane, è succeduto un cardinale a capo di una diocesi veramente centrale nella vita della nazione. Al di là del valore delle singole persone, il maggior rilievo istituzionale del nuovo presidente non può che significare la volontà di potenziare il peso della Conferenza episcopale, sia all’interno del mondo dei credenti americani, sia all’esterno, verso Roma e verso l’intera società statunitense. Dal punto di vista programmatico vogliamo ricordare come il cardinale George abbia frequentemente proposto come prospettiva di lavoro la riscoperta e valorizzazione dell’identità cattolica.
L’assemblea di Baltimora, oltre ad affrontare questioni di ampio respiro per la vita della chiesa, ha visto anche l’anticipazione dei primi risultati di una vasta ricerca sulle cause e il contesto degli abusi sessuali da parte del clero. La Conferenza episcopale ha, infine, reso pubblico un documento, The Challenge of Forming Consciences for Faithful Citizenship (PDF), sull’impegno nella società dei cattolici, usuale nell’anno del voto presidenziale, a cui però è stato dato un rilievo particolare facendolo votare dall’assemblea e non, come in passato, solo dal comitato amministrativo.
Nel documento appare una piena consapevolezza delle difficoltà del momento che stanno vivendo gli Stati Uniti e delle responsabilità dei cattolici. Si riconosce che gli Usa sono oggi una nazione in guerra, con tutti i costi che questo comporta, che sono una nazione spesso divisa secondo la linea dei gruppi etnici, una nazione di immigranti che combatte con l’immigrazione, una nazione ricca in cui troppi vivono in povertà. Secondo il documento dei vescovi, il cattolico deve opporsi all’aborto, all’eutanasia, promuovere la lotta ad altre minacce alla vita come fame, povertà, razzismo, politiche di immigrazione autoritarie e guerre ingiuste, pena di morte, debole protezione assistenziale e sanitaria. I pericoli morali principali per la società americana vanno cercati nel relativismo e nell’indifferentismo. Si invitano i cattolici a spendersi nella vita politica e a valutare i candidati, ancor prima che per le appartenenze politiche, sulla base dei programmi.
Dopo la conclusione dell’assemblea di Baltimora si è svolto a Roma, il 24 novembre, il concistoro nel quale sono stati nominati due nuovi cardinali statunitensi. Il primo è John Patrick Foley, esponente di curia e presidente del Consiglio pontificio per le comunicazioni sociali, mentre il secondo è Daniel Nicholas DiNardo, studioso di patristica, arcivescovo di Galveston-Houston nel Texas, la diocesi più grande degli Usa, di età relativamente giovane (è nato nel 1949). E’ espressione di quel Sud dove il cattolicesimo si è mostrato in crescita negli ultimi anni, grazie alla continua immigrazione ispanica.
Un ultimo avvenimento ha segnato di recente l’agenda dei rapporti tra Stati Uniti e Vaticano. E’ stata annunciata la nomina, che deve essere ancora ratificata dal Congresso, del nuovo ambasciatore degli Usa presso il Vaticano, la professoressa Mary Ann Glendon docente di diritto ad Harvard. La Glendon non è certo un nome sconosciuto nel mondo vaticano. E’, infatti, presidente dal 2004 della Pontificia accademia delle scienze sociali, è membro del Pontificio consiglio per i laici e ha guidato nel 1999 la delegazione della Santa Sede alla conferenza internazionale sulla donna svoltasi a Pechino. Sul versante della politica americana è stata consulente di Bush per la bioetica.
Sono note le sue posizioni di antiabortista, di intransigente avversaria della regolazione delle nascite. Un solido profilo conservatore che non è messo in discussione dal suo essere divorziata e dall’avere un passato di attivista nel movimento per i diritti civili in Mississipi. La scelta ha suscitato qualche resistenza per un possibile conflitto d’interessi della Glendon nel rappresentare il proprio paese di origine (gli Usa) in un altro (il Vaticano) nel quale è pienamente inserita in alti livelli decisionali e di rappresentanza.
E’ uno scenario complessivo assai ricco, con tanti elementi che, assieme considerati, ci forniscono un’impressione di forte movimento e di ampia apertura sul futuro. Se non vi è quindi una lettura univoca e un cammino già determinato, non si può fare a meno di rilevare come nella chiesa statunitense stiano sommandosi le forti eredità del pontificato di Giovanni Paolo II, soprattutto nella discussione sulle grandi prospettive del mondo, e le sempre più stringenti argomentazioni di Benedetto XVI sulla necessità di riproporre un’identità cattolica che allontani ogni relativismo. Ne consegue un diverso ruolo dei cattolici nella vita pubblica e nell’impegno politico, centrato su nuove dimensioni. Gli Stati Uniti stanno rappresentando, come sempre grazie alla straordinaria capacità di anticipazione e di assemblaggio di diverse culture che offre quel paese, il campo dove articolare compiutamente tutte le novità che offre il pontificato di Joseph Ratzinger.
Umberto Mazzone, 18 dicembre 2007 – Pagine di Difesa, testata giornalistica di politica internazionale e della Difesa