di Rosario Giuè
Alcuni giovani di Corleone chiedono: «Come mai la Chiesa
italiana concede la celebrazione dei funerali religiosi ai capi della
mafia e ai capi della camorra e li ha negati a Pier Giorgio Welby?».
Cosa si può rispondere? Come mai si concede la preghiera pubblica a
favore di persone responsabili, direttamente o indirettamente, di
decine di morti barbaramente ammazzati e la neghi a persone come Welby,
un credente praticante che, come è noto, ha chiesto soltanto
nell´esercizio della sua responsabilità di non prolungare
artificialmente la fase terminale della sua dolorosa e lunga
sofferenza? A questa domanda semplice e radicale, come cristiani, come
comunità ecclesiale cattolica, si ha il dovere di dare una risposta
altrettanto radicale. Una risposta ragionevole, non sul piano della
politica, bensì sul piano dell´etica e, direi, della spiritualità, in
Sicilia prima di tutto. Anche perché, prima o poi, ci si troverà ancora
davanti situazioni simili.
In effetti, non è giustificabile
agli occhi di molti che si concedano i funerali pubblici ai capimafia e
si neghino a una persona inerme come Welby. Per molti non è
giustificabile che si concedano i funerali ai responsabili di
comportamenti che hanno procurato dolore e morte e violato la
convivenza civile ed umana, e si neghino ad una persona che non ha
violentato nessuno. Non è giustificabile che non si accolga una persona
solo perché non ha deciso di spiritualizzare o di mistificare il
dolore, o di dare ad esso un fine pedagogico. Non è giustificabile non
concedere la pubblica preghiera a un uomo solo perché non ha voluto
considerare il dolore come «il purgatorio sulla terra», una
spiritualità, quella del culto o dell´esibizione del dolore
(dolorismo), figlia di un´immagine distorta di Dio, non biblica, che
l´uomo e la donna moderni non comprendono. C´è qualcosa che non
funziona. Si accoglie in chiesa (si dice di farlo per misericordia) la
salma del capomafia o della camorra che si è mostrato religioso e che
contemporaneamente ha decretato la morte o l´umiliazione altrui per
accumulare potere e denaro. E non si prega in chiesa per un uomo
colpevole di avere scelto soltanto di non prolungare artificialmente la
propria esistenza, «colpevole» di avere assunto la responsabilità di
una morte per lui ritenuta più dignitosa senza che ciò lo facesse
sentire separato dalla fedeltà al Dio di Gesù crocifisso. Pier Giorgio
Welby è stato dichiarato colpevole di non avere rispettato la sua vita
come dono di Dio. In realtà Welby (o altri come lui), forse, ha pensato
che la vita è per volontà di Dio anche «compito» dell´uomo e che in
quella sua difficile scelta il Dio di Gesù, forse, gli era accanto come
amico compassionevole. Dal suo punto di vista Pier Giorgio Welby ha
rifiutato la coercizione decisa da altri di un prolungamento
artificiale della vita, convinto che il suo stato di grave ed
irreversibile malattia non potesse essere inteso come mandato da Dio.
Forse ha pensato che la «fine stabilita» da Dio non potesse e non
dovesse coincidere meccanicamente con la riduzione della vita umana ad
una vita biologica in mano altrui. Ma tale semplice convinzione è stata
la causa che ha procurato alla sua famiglia, alla mite sorella in
particolare, il rifiuto di un gesto di pietà (senza misericordia?) del
funerale in chiesa per il loro caro.
Al contrario, per i capi mafiosi
e camorristi che disprezzano scientificamente la vita come dono di Dio,
il problema di negare i funerali nemmeno è stato sollevato nella Chiesa
italiana. Se il mafioso ha vissuto nella convinzione ostentata che la
vita degli altri sia «per volere di Dio» a sua propria disposizione al
punto da considerarla un nulla come un nuddu miscatu cu nenti, come un
ostacolo o un oggetto, tutto ciò non è stato considerato un problema
così grave tale da richiamare una sanzione ecclesiale pubblica. Se il
capomafia non esita a pregare ed invocare Dio prima di commettere o
commissionare l´ultimo omicidio, questa «colpa» non sembra contare
molto, almeno non quanto la «colpa» di Welby (sempre per
misericordia?).
Come si può giustificare una così
vistosa disparità di giudizio e di trattamento? Non basta dare la
giustificazione che nel caso di Welby vi è l´aggravante secondo il
quale egli ha preteso di rinunciare ad un prolungamento forzato ed
artificiale della vita facendone un caso pubblico emblematico. Una
giustificazione di questo tipo oggi non regge. Infatti: il capo mafia
che ci tiene a morire da «uomo di onore» e che pretende di essere
riconosciuto e circondato con tale prestigio e che pure viene elogiato
nell´omelia per il «bene» fatto e la sua vita familiare perfetta? Il
mafioso che non passa da nessun ripudio pubblico del mondo mafioso e
dei valori che esso rappresenta fino alla fine, non è anche questo un
fatto pubblico e «politico»?
Oggi le persone
ragionano con la propria testa, ascoltano in televisione opinioni
diverse, vanno a scuola, si fanno una propria visione delle cose, dal
basso. Non stanno dentro i palazzi spesso circondati da persone che non
hanno il coraggio di dirti che stai sbagliando. Oggi la società moderna
chiede chiarezza e trasparenza nel discorso pubblico. E in tanti e
tante non seguono la Chiesa
italiana sulla strada della doppia morale. Perciò vorrebbero
incontrarsi (o confrontarsi) con una Chiesa più umile, più autocritica,
più accanto all´uomo e alla donna reali, lontana dai furori ideologici.
Se è vero, come dice Paolo, che le ideologie passano e che solo l´amore
rimane.